MILANO – Il mondo dell’agroalimentare guarda con preoccupazione all’accordo sui dazi al 15% siglato tra Unione europea e Stati Uniti. L’intesa sulle importazioni dei prodotti europei in Usa si estende infatti anche alla filiera agricola, assorbendo in un certo modo i dazi preesistenti: in alcuni casi – come per i prodotti lattiero-caseari e l’olio extravergine d’oliva italiano – si arriva a un impatto nullo.
Diverso il destino del vino che, salvo un’esenzione ancora da confermare, e sui cui Bruxelles promette di lavorare perché sia inserito nella lista a ‘dazio-zero’, rischia un incremento dei dazi rispetto all’attuale soglia del 2,5%. “Su vini e liquori, sono ancora in corso le discussioni” per eventuali esenzioni dal dazio del 15%, ha fatto sapere un funzionario Ue. “Non posso dire quando tutto questo potrebbe concretizzarsi. Posso solo dirvi che sembriamo essere più avanti sui liquori che sui vini. Ma stiamo continuando a impegnarci in questo ambito”. Nel settore del vino l’Italia stima un danno “di circa 317 milioni di euro cumulati nei prossimi 12 mesi”. Secondo il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi “il danno salirebbe a 460 milioni di euro qualora il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione”. I conti sono presto fatti: “a inizio anno la bottiglia italiana che usciva dalla cantina a 5 euro veniva venduta in corsia a 11,5 dollari; ora, tra dazio e svalutazione della moneta statunitense, il prezzo della stessa bottiglia sarebbe vicino ai 15 dollari. Con la conseguenza che, se prima il prezzo finale rispetto al valore all’origine aumentava del 123%, da oggi lieviterà al 186%”. Per l’Osservatorio Uiv, il conto si fa molto più salato alla ristorazione, dove la stessa bottiglia da 5 euro rischierà di costare al tavolo – con un ricarico normale – circa 60 dollari. “Il mercato americano vale il 30% delle nostre esportazioni, pari a oltre 3 milioni di bottiglie; in questo scenario sarà difficile se non impossibile riallocare l’invenduto nel breve periodo su altre piazze”, avverte Giacomo Bartolommei, presidente del Consorzio del Vino Brunello di Montalcino che prevede, in questa prima fase, un conseguente “rallentamento delle esportazioni” verso gli Usa.
In generale, per quanto riguarda l’Italia i prodotti agricoli e alimentari esportati in Usa equivalgono a circa otto miliardi di euro. Secondo i dati del Crea, nel 2024 le esportazioni italiane hanno raggiunto infatti circa 7,9 miliardi di euro (l’11,5% dell’export agroalimentare complessivo), ma con marcate differenze tra i prodotti. Per alcuni prodotti, come sidro e ‘Pecorino e Fiore Sardo’ (per i quali raggiunge circa il 60-70% nel 2024), l’incidenza del mercato statunitense risulta particolarmente elevata. Significativo anche il peso degli Usa sull’export di vino (24%, che supera il 30% per i vini Dop) e di olio extravergine di oliva (superiore al 30%) mentre esso è più contenuto per altri prodotti, come le conserve di pomodoro e il caffè torrefatto (inferiore al 10%). Nel 2024 l’Italia è al primo posto, tra i Paesi dell’Ue, come fornitore di prodotti agroalimentari per gli Usa. Coldiretti chiede dunque all’Europa “compensazioni europee per le filiere penalizzate anche considerando la svalutazione del dollaro”. “L’accordo con tariffe al 15% è sicuramente migliorativo rispetto all’ipotesi iniziale del 30% che avrebbe causato danni fino a 2,3 miliardi di euro per i consumatori americani e per il Made in Italy agroalimentare”, spiega il presidente Ettore Prandini segnalando “impatti differenziati tra i settori”. Come già ribadito, Coldiretti sottolinea che “non possono essere ammessi in Italia prodotti agroalimentari che non rispettano gli stessi standard sanitari, ambientali e sociali imposti alle imprese europee. È fondamentale che l’Unione Europea continui a difendere con fermezza il sistema delle Indicazioni Geografiche, che rappresentano una garanzia di qualità e origine, e un presidio culturale ed economico del nostro cibo”. Dal canto suo, il presidente della Copagri Tommaso Battista, evidenzia come i dazi “siano più che triplicati rispetto alle percentuali attuali, di poco inferiori al 5%, con un incremento che avrà pesanti ricadute su molte produzioni di punta del Made in Italy agroalimentare, soprattutto se sommato alla svalutazione del dollaro americano”. Di fatto, “questo balletto dei numeri avrà ripercussioni più significative sui prodotti che godevano di una tassazione più bassa e una minore incisività per le produzioni che già scontavano dazi analoghi”.